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Terrorismo nero, Manlio Milani: “Meloni tolga quella fiamma dal simbolo, solo così farà davvero i conti col passato”

C’è una voce che si unisce a quella di Manfred Weber, leader dei Popolari Europei, nel chiedere a Giorgia Meloni di spegnere quella fiamma che simboleggia lo spirito di Mussolini. È la voce di un uomo che ricorda e al tempo stesso ammonisce: attenzione, quella fiamma non richiama solo il Ventennio; richiama anche e soprattutto la storia più oscura della Prima Repubblica. La guerra a bassa intensità, il terrorismo nero, le bombe.

È la voce di Manlio Milani, 84 anni, bresciano. Il 28 maggio 1974 perse la moglie Livia Bottardi, 32 anni, nella strage di piazza della Loggia. Ha fondato a Brescia la Casa della Memoria e ha promosso un percorso di 441 formelle che, da piazza della Loggia fin su in cima al Castello Cidneo, ricorda le vittime del terrorismo e della violenza politica dal 1962 al 2003. Ci sono tutti: destra e sinistra. C’è anche Sergio Ramelli, il giovane missino ucciso a sprangate a Milano nel 1975. C’è soprattutto la volontà di chiedersi perché tutto questo è accaduto.

Milani, lei dice che la storia del Msi è anche la storia della strategia della tensione.

“È così”.

Non è facile da affermare.

“Non è facile se non si parte dall’inizio, se non si tiene presente la storia degli intrecci fra stragisti, politica e uomini delle istituzioni. Io le faccio l’esempio di piazza della Loggia. Ad oggi abbiamo solo due condanne definitive: Carlo Maria Maggi, capo di Ordine Nuovo del Triveneto, che fu il mandante e che nel frattempo è morto. E Maurizio Tramonte, ordinovista e informatore dei servizi. Ma ci sono voluti 43 anni per arrivare a questa prima verità processuale. Nella quale, tuttavia, come scrive la giudice Anna Conforti, ‘manca l’aspetto della malavita istituzionale’. E ancora non è finita: stanno per essere giudicati due presunti esecutori materiali”.

Un numero infinito di processi. Perché?

“Perché c’è stato un numero infinito di depistaggi”.

Da parte di chi? Servizi deviati?

“Non mi piace l’espressione servizi deviati. Erano alti ufficiali. Come il generale Gianadelio Maletti, che su piazza della Loggia non riferì agli inquirenti quanto sapeva, e anzi li mandò su una pista sbagliata. Maletti ebbe una condanna definitiva per favoreggiamento nella strage di piazza Fontana. L’anno scorso è stato commemorato ed elogiato da un deputato di Fratelli d’Italia al Senato”.

Un po’ poco per stabilire un contatto fra stragi e Msi.

“Io non dico che il Msi abbia ordinato le stragi. Dico che tutta la storia della strategia della tensione è stata anche la storia di uomini che hanno usato il Msi come una porta girevole. Da quel partito entravano ed uscivano. L’intreccio fra Msi e stragisti e golpisti è stato costante, ed è rappresentato da quella porta girevole”.

Nomi?

“Carlo Maria Maggi, condannato appunto in via definitiva per piazza della Loggia, era stato iscritto al Msi. Giangastone Romani, che ad Abano Terme ospitò la riunione di Ordine Nuovo in cui si decise la strage di Brescia, era membro dell’esecutivo nazionale. Massimiliano Fachini, condannato per banda armata, era stato consigliere comunale a Padova. Sandro Saccucci, condannato per il tentato golpe Borghese, fu poi eletto alla Camera nel Msi. Nico Azzi, che fu beccato su un treno con una bomba che gli scoppiò fra le mani, era stato iscritto al partito: e ai suoi funerali, nel 2007, andò anche Ignazio La Russa. Pino Rauti, che fu fra i relatori del convegno organizzato a Roma nel 1965 dall’Istituto Pollio sulla guerra rivoluzionaria”.

Pino Rauti è sempre stato assolto.

“Sì. Ma come fu detto al processo da un pm, lasciateci almeno dire che fu un cattivo maestro. Rauti diceva che la democrazia era ‘il nemico’ e che ‘non siamo tutti uguali’. È stato segretario del Msi negli anni 1990 e 1991”.

Giorgia Meloni aveva tredici anni.

“Ma solo l’anno scorso, qui a Brescia, il suo partito ha intitolato a Pino Rauti una sezione. Con questa motivazione: ‘Il pensiero di Rauti può e deve essere riaffermato oggi di fronte alla crisi antropologica dell’Occidente’. Questa è una sezione di Fratelli d’Italia”.

Cinquant’anni fa, il 12 aprile del 1973, l’agente di polizia Antonio Marino fu ucciso a Milano. Lei dice che su questo il presidente La Russa dovrebbe dire qualcosa. Perché?

“Perché quella manifestazione in cui morì l’agente Marino, colpito da una bomba a mano, fu organizzata anche dal Msi. Ignazio La Russa era uno dei giovani leader del partito di Milano. Cosa ricorda di quel giorno?”

Lei accusa anche Almirante? C’è chi dice che s’incontrasse periodicamente in segreto con Berlinguer per isolare i violenti.

“Almirante è stato tante cose. Un politico, innanzitutto: doveva tenere insieme un elettorato anche moderato e molte teste calde che non poteva del tutto controllare. Almirante alla fine forse si abituò alla democrazia, ma non poté staccarsi completamente da un certo mondo”.

Che rapporto aveva il Msi con i violenti?

“Pubblicamente li condannava, perché era il partito del doppiopetto ed esibiva rispettabilità. Ma per certe cose i violenti gli erano utili. Poi, quando occorreva, li scaricava. Per far infine partire le coperture”.

Dove sbaglia, secondo lei, Giorgia Meloni?

“Sbaglia nel ripercorrere la storia di quegli anni con un atteggiamento vittimista, ricordando solo i suoi morti. La sua è una narrazione parziale della storia. Ma è anche il riproporre una contrapposizione. Nel nostro Memoriale di Brescia, i morti sono tutti uguali, non abbiamo escluso nessuno. Ma la storia personale di ciascuno va collocata nella Storia con la maiuscola: per cogliere la diversità delle scelte e dei valori”.

In quegli anni c’è stata una guerra?

“Una guerra unilaterale. Chi l’ha dichiarata? Certamente non gli antifascisti. Certamente non la democrazia”.

Mantenere la fiamma impedisce una vera pacificazione?

“È così. C’è stato un clima politico che bisogna mettersi alle spalle. E Meloni non se lo sta mettendo alle spalle. Dice che il Msi ha portato la Destra nella legalità. Ma questo è, in grandissima parte, falso. E non le permette di riconoscere le responsabilità storiche del mondo da cui proviene. E quindi di compiere gesti che segnino una rottura, un netto distacco”.

Lei vede, nel percorso di Giorgia Meloni, un passo indietro rispetto a quanto aveva fatto Gianfranco Fini?

“Certamente. Fini a Fiuggi disse: è ora che i figli si stacchino dai padri. Lui si smarcò da quel mondo. L’impressione è che lei non ci voglia neanche provare”.

Crede che toglierà la fiamma dal simbolo?

“Farebbe bene a farlo, anche se non basterebbe per fare davvero i conti con il passato. Ma non so se la toglierà. Di sicuro, mantenerla è un modo per riaffermare la continuità ideale con quel passato”.

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